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Libri e Partiture


Mario Castelnuovo-Tedesco.

Un fiorentino a Beverly Hills.


di  Angelo Gilardino


Edizioni Curci € 19,00

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Codice: EC11981

ISBN: 9788863952469




Chiunque ne abbia esperienza, sa bene che scrivere una biografia degna di questo nome non significa limitarsi a elencare cronologicamente dei fatti; il biografo, nel ricostruire una vita, la coglie e la definisce nel suo carattere afferrandone gli angoli più nascosti, le fantasie e i desideri più intimi, le delusioni, le ingenuità, spingendosi oltre e fin nelle pieghe della segretezza di quello che veramente conta per il personaggio, di quello che è stato, ma pure di quello che non ha potuto essere fino in fondo.


Il libro di Angelo Gilardino, Mario Castelnuovo-Tedesco. Un fiorentino a Beverly Hills, uscito qualche mese fa per le Edizioni Curci con una Prefazione curata dalla nipote Diana, per la particolare profondità di ‘campo’ su cui si muove, per la naturale osmosi tra l’Autore e gli argomenti affrontati, nonché per i rapporti di stima affetto e fiducia incondizionati che lo legarono al protagonista, ci fa ‘entrare’ empaticamente nella sua storia personale, descrivendone l’evoluzione artistica e umana, laddove l’opera è il riflesso della vita.


Gilardino firma una biografia, data alle stampe a cinquant’anni dalla morte del compositore fiorentino (1968- Beverly Hills), che si può definire un libro di ‘storie’, e non solo quella di Castelnuovo.

A costruirla contribuiscono da una parte la stessa autobiografia di quest’ultimo, Una vita di musica, pubblicata dieci anni fa, ma soprattutto una raccolta di sessanta lettere inviate tra il 1967 e il 1968 dal compositore al giovane chitarrista vercellese.


Le riflessioni, come pure le percezioni dell’Autore, sono saldamente vincolate alla mediazione che di esse ne fanno i documenti scritti, con l’intento di trasmettere al lettore una memoria sempre sintonica con i fatti accaduti sul tappeto della Storia.

Attraverso una fluida narrazione si rivelano le origini spagnole sefardite del musicista, racchiuse nella radice del suo cognome Castilla Nueva, una famiglia ebrea appartenente all’ alta borghesia fiorentina e dedita alla finanza (il padre di Mario era banchiere, figlio e nipote di banchieri).


E ancora, emergono i luoghi significativi tanto cari nell’infanzia come nella maturità, Giramonte e la villa di campagna dei genitori, Castiglioncello e le estati trascorse in compagnia degli amici, Usigliano di Lari e i soggiorni frequenti nella villa dei Forti, che divenne “il suo rifugio nei periodi in cui, per comporre, cercava pace e serenità” (p.34). Tra i grandi affetti, la figura materna e quella dell’amatissima moglie Clara, “il conforto senza il quale la strada verso la salvezza sarebbe stata più difficile” (p.33).


Naturalmente, le lettere ricostruiscono il dramma del volontario esilio negli Stati Uniti nel 1939, a seguito dell’emanazione delle leggi razziali e l’angoscia provata rispetto allo sradicamento in terra americana, cui il musicista non si abituò mai pienamente.  

Quando poi il biografo si trasforma in critico e musicologo, abbiamo la possibilità di confrontarci con la problematicità dell’opera di Castelnuovo-Tedesco all’interno del panorama della musica contemporanea nel corso di oltre cinquant’anni, fino alla sua scomparsa avvenuta nel 1968.


Considerato per molto tempo un conservatore, in realtà il compositore prese le distanze tanto dai suoi “vicini di esilio” come Stravinsky (da un lato) e Shoenberg (dall’altro), ma anche dallo spiritualismo del suo maestro Ildebrando Pizzetti, che del fascismo fu un alfiere, e che morì nello stesso 1968. E questo, paradossalmente, lo rende, come afferma Gilardino, lontano dalle avanguardie postweberniane che decretano per certi versi la fine della Neue Musik procedendo in tutt’altre direzioni.


In quell’ “Italietta musicale di provincia” (p.31), Mario Castelnuovo-Tedesco tenta di superare il trionfalismo e, contemporaneamente, la vacuità delle correnti nazionalistiche che avevano portato all’ ‘isolamento’ della musica italiana, attraverso una significanza artistica che è nello stesso tempo etica, spirituale e umana, e che si traduce in una “visione del mondo fondata sull’umanesimo, sull’arte, sulla cultura e sugli affetti familiari” (p.63).

Il rifiuto di ritornare in Italia nel ‘48, nonostante la proposta di nomina a direttore del Conservatorio di Napoli, appoggiata dai tanti colleghi amici napoletani, e nonostante le pressioni del governo che lo voleva direttore a Roma, quasi a risarcimento dei danni subiti, va letto in tal senso: il musicista avverte il pericolo, sia degli entusiastici e strumentali sostegni, sia dei pregiudizi e delle critiche provenienti dall’ establishment culturale del tempo; e questa consapevolezza  genera in lui un sentimento di “sfiducia” congiunto alla “disistima nei riguardi dei musicisti italiani suoi contemporanei” (p.41).


Di qui la scelta sofferta di restare negli Stati Uniti (nel 1946 aveva comunque ricevuto la cittadinanza americana), continuando come free lance a scrivere musiche da film per importanti produzioni cinematografiche che ricorrevano a lui sia per intere colonne sonore, ma soprattutto per musicare talune scene (in alcuni casi viene accreditato come ‘autore della colonna sonora’, in altri ‘compositore di musiche originali’).


Ma tutto questo non attenuò l’ amarezza della condizione di ‘straniero’ in Italia e di italiano negli Stati Uniti, inducendolo a considerarsi “unico abitante di un mondo soltanto suo”, in cui “avrebbe continuato la sua evocazione di un tempo irredimibile, né presente, né passato, né futuro” (p.186).

Nel continuo gioco di specchi di questa biografia, in cui la vita  si eleva e ricade, ammaliante e transitoria, Gilardino considera complessivamente “due vite esteriori” appartenute a Castelnuovo-Tedesco: la prima, fino al 1938, quella “della giovinezza piena di successi e della maturità artistica” (p. 89), legata a Firenze, alle amicizie e alle frequentazioni di grandi personaggi che vanno dagli interpreti della sua musica agli uomini di cultura e agli artisti più importanti dell’epoca; l’altra, quella dello strazio dell’espatrio e del soggiorno americano.


Nonostante tutto, la sua vita interiore, scrive Gilardino, fu “resa unica dalla musica” (p.10). Viene poi sottolineata la sincera amicizia che lo legò ad Andrés Segovia, il quale continuò a suonare la sua musica incurante delle mode, anche quando “dopo la guerra, la musica di Mario scomparve quasi del tutto dalle programmazioni europee” (p.179).

di Paola Troncone

Gilardino, in qualità di musicista e critico, indaga e analizza meticolosamente l’intera produzione musicale di Castelnuovo, che comprende opere per coro, orchestra, strumento solista e orchestra e opere teatrali, con una particolare attenzione alle musiche per chitarra, che non sapeva suonare ma che amava per la sua essenzialità, per “l’ affinità che esisteva tra la  scrittura chitarristica e il suo stile compositivo” (p.180).

Oggi la figura di Castelnuovo-Tedesco ci appare sempre più viva e attuale. La sua fisionomia è quella di un artista versatile, amante della letteratura, della poesia, del teatro, che Gilardino riscatta definitivamente da una critica che definisce ‘conservatore’ il suo linguaggio musicale, contrapponendovi il concetto riduttivo per cui si intende per ‘moderna’ quella musica che sancisce una rottura rispetto alla tradizione. La modernità di Castelnuovo-Tedesco va riconosciuta, al contrario, nell’elaborazione di un pensiero autonomo e originale, scevro dall’imitazione di modelli compositivi a lui contemporanei. Un compositore della ‘modernità’ non rifiuta il passato in quanto tale: piuttosto, si rivolge ad esso con l’inquietudine per tutto ciò che vede nel presente, forse come difesa necessaria contro la barbarie in un’epoca di oblio.


Chiediamoci allora, insieme con l’Autore, se ha un senso scrivere una biografia in presenza di un’autobiografia. Ha un senso, nella misura in cui quest’ultima descrive una serie di personaggi che si muovono in un mare di piccoli fatti e grandi rivelazioni su un unico piano narrativo e che ne fa un “lungo monologo confidenziale per iniziati” (p.7).


E invece, un motivo del tutto inedito per leggere questo libro sta proprio nell’epistolario, che sprigionando una intensa forza evocativa ci induce a compiere un viaggio intellettuale disintossicante e ‘regressivo’, fino a una sorta di ‘grado zero’ della conoscenza. Le lettere sono materia ‘viva’, si trasformano in memoire perché da esse emerge la verità emotiva oltre che quella fattuale. Ecco, dunque, che la ricostruzione degli eventi non fa solo riferimento alla loro esattezza storica, ma a ciò per cui hanno significato, alla loro autenticità.


P.T.